Chi fugge vive per
lottare un altro giorno
Dal film Elisabethtown
In tempi più recenti, i processi migratori sono stati alimentati spesso da motivi di ribellione verso la propria condizione da parte di generazioni successive con nuove aspirazioni e sogni da inseguire. Si è così affermato un processo migratorio di seconda generazione che suscita grande preoccupazione: La Fuga dei Cervelli.
La definizione di Brain Drain scritta e ripersa dall’Enciclopedia Britannica è apparentemente chiara: “l’abbandono di un paese a favore di un altro da parte di professionisti o persone con un alto livello di istruzione, generalmente in seguito all’offerta di condizioni migliori di paga o di vita”. Tale fenomeno, pur essendo antico, è emerso nel dibattito internazionale solo intorno agli anni Sessanta, soprattutto in termini di emigrazione dal Sud al Nord del mondo. Nel 1997, un rapporto dell’Ocse sui movimenti di personale altamente qualificato ha messo in luce, all’interno di questi movimenti, tre elementi sostanzialmente nuovi che si sono aggiunti al brain drain per così dire tradizionale, elementi per i quali ha quindi indicato nuove definizioni. La prima è quella di brain exchange – lo scambio di cervelli – che secondo l’Ocse è il flusso di risorse intellettuali tra un Paese e l’altro, con uno spostamento equilibrato nei due sensi: tanti ricercatori escono e tanti ne entrano. Poi c’è la circolazione dei cervelli, o brain circulation, termine che definisce un percorso di formazione e avviamento alla carriera, in cui ci si sposta all’estero per completare gli studi e perfezionarsi, si trova un primo o un secondo lavoro sempre all’estero e, alla fine, si torna in patria, dove si mettono a frutto le esperienze accumulate per occupare una posizione di maggiore vantaggio e responsabilità. L’Unione Europea è particolarmente impegnata nel favorire questo genere di interazioni tra i suoi Paesi membri. Infine, l’Ocse evidenzia il nuovo fenomeno del brain waste, lo spreco di cervelli. In questo caso, l’emigrazione non è fisica ma occupazionale: è la perdita delle competenze e vantaggi derivata dallo spostamento di personale altamente qualificato verso impieghi che non richiedono l’applicazione delle cognizioni per cui sono stati formati. Si può, pertanto, correttamente parlare di fuga dei cervelli solo nel caso in cui il flusso netto di capitale umano altamente qualificato è fortemente sbilanciato in una sola direzione e lo scambio rappresenta una perdita di risorse umane per il Paese di origine. È esattamente quello che sta accadendo in Italia. Il nostro problema è che non c’è nessuno scambio ma solo una fuga, le cui proporzioni si stanno aggravando fino a configurarsi come una perdita che coinvolge un’intera generazione di giovani ricercatori. L’esportazione di capitale intellettuale – è opportuno sottolinearlo subito – non è solo una perdita di persone e del denaro speso per formarle. Le innovazioni prodotte all’estero dai cervelli in fuga saranno proprietà dei Paesi in cui sono state realizzate. La classe politica ha inciso negativamente in questo processo perché non ha dato il giusto peso al problema, continuando a parlare di mobilità invece che di fuga. Il primo dato che sintetizza efficacemente la situazione viene dall’analisi del censimento Istat: tra il 1996 e il 2000, gli ultimi anni disponibili, l’Italia ha perso più di 2700 laureati. Ed è stata una perdita netta, poiché il numero assoluto dei laureati emigrati (in media, 3200 all’anno nel quinquennio), pur variando molto da un anno all’altro, ha costantemente superato quello di coloro che hanno ripreso la residenza in patria. Inoltre, è andato sempre crescendo, con l’eccezione del 1997, toccando un massimo di oltre 4000 nel 1999. Soffermandosi sul problema della distinzione tra mobilità e fuga, il fattore cruciale è la durata del periodo di assenza: “più lunga è l’assenza, più il paese ospite può avvantaggiarsi dell’opera dell’emigrato, e più si indeboliscono i suoi legami con il paese di origine”. La grave fuga dei cervelli costituisce il sintomo più grave ed evidente del male che affligge il sistema della ricerca in un Paese. Ma per sistema della ricerca non va intesa solo la ricerca scientifica, bensì più in generale (e più gravemente) l’intera capacità di innovazione di un Paese. La fuga dei cervelli (e/o il loro spreco: non bisogna, infatti, dimenticare il problema di chi resta in patria ma con un lavoro diverso da quello per cui si è formato) è la misura di quanto un Paese stia smarrendo sia la visione del proprio futuro sia la capacità stessa di pensare e progettare il futuro. Ovviamente, via via che la fuga aumenta e si aggrava, passiamo dal sintomo di una malattia ad una malattia a sé stante. Ecco, perché chiunque si sia occupato di fuga di cervelli ha paura da tempo che l’Italia sia un Paese avviato verso il declino.
Fortunatamente negli anni la condizione dei migranti è assai migliorata. Attraverso le testimonianze sopracitate dei migranti della prima generazione capiamo che al tempo essi venivano fortemente discriminati e che non gli venivano garantiti i diritti politici, di cui i normali cittadini godevano. Allo scopo di aiutare queste minoranze esiste l’ILO (International Labour Organization). Io, ad esempio, nel mese di aprile del 2024 sono partito a New York con lo scopo di simulare una vera e propria riunione dell’ILO. In questa simulazione tutte le nazioni del mondo venivano rappresentate da due delegate ciascuno. L’obbiettivo principale era quello di riuscire a trovare insieme una soluzione ai problemi vissuti ogni giorno dai migranti lavoratori. Attraverso varie discussioni e dibattiti noi delegates abbiamo capito che, per risolvere i problemi attuali, c’è una cosa principale che va raggiunta: la cooperazione tra tutte le nazioni.
Personalmente ho vissuto un’esperienza all’estero davvero entusiasmante, ma non mosso dal desiderio di fuggire dal mio vissuto, al contrario per recepire direttamente un arricchimento culturale da poter condividere anche al di fuori del mio quotidiano contesto di vita. L’esistenza di questa esperienza quieta le preoccupazioni che ho sul futuro un po’ mie e un po’ forse anche del genere umano, perché mediante essa tantissimi giovani ragazzi/e vengono educati sui problemi di oggi e su come chi sa anche per poterli risolverli nel futuro.