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Daniela Sabauanu – Una rivisitazione critica del pensiero di di John Dewey

Come le pietre guidano il ruscello
nel passo sicuro,
così i mediatori dell’educazione
tracciano il sentiero dell’interazione.

                                                                                                                                                 Francesco Augello

 

John Dewey fu un filosofo, psicologo e riformatore educativo americano nato il 20 ottobre1859 a Burlington morto il 1 giugno 1952 a New York che attraverso la rivoluzione delle scuole attive americane ha sicuramente influenzato il pensiero dei primi anni del Novecento.

Questo filosofo è tra i più importanti rappresentanti ed interpreti del pragmatismo che vede nel pensiero uno strumento per l’azione nella validità di una teoria che misura dalla sua capacità di produrre un intervento efficace sulla realtà.  Dewey già dai primi anni dei XX secolo ebbe una grandissima influenza pedagogica, filosofica e politica sulla cultura ma nonostante questo è considerato il principale teorico dell’attivismo. In effetti l’attivismo interprete del pensiero dell’epoca aveva come scopo la creazione di una scuola non convenzionale, basata sugli interessi dei discenti. In altre parole, una scuola secondo la psicologia dell’alunno e non del maestro per questo le scuole nuove si focalizzano sulla realtà educative che risponda ai bisogni di un mondo in rapida trasformazione. Nel testo Esperienza e educazione, l’autore scrive:

«Ho tentato di chiarire il bisogno di tale teoria con il richiamare l’attenzione su due principi che sono fondamentali nella costruzione dell’esperienza: i principi dell’interazione e della continuità[1]».

Ora il suo modello costruito per l’elaborazione di una teoria esperenziale non aveva bisogno di una rigida struttura teorica in quanto ciò che mancava nelle scuole dell’epoca era proprio quella visione empirica della realtà bastata sull’interazione degli studenti e tra gli studenti attraverso un’esperienza costante e di continuità.

Le scuole nuove vedevano così le scuole tradizionali come espressione manifesta dell’oppressore e l’insegnante rischiava di essere visto come usurpatore della libertà dell’alunno, ma Dewey sostiene che nelle scuole non bastava una qualsiasi occupazione per generare apprendimento. In effetti e a ben vedere non tutte le esperienze sono educative. Non a caso l’autore scrive:

«La sola libertà che ha durevole importanza è la libertà dell’intelligenza vale a dire la libertà di osservare e di giudicare esercitata nei riguardi dei piani che hanno un valore intrinseco. […] La limitazione imposta esternamente dalle disposizioni immutabili della tipica aula scolastica tradizionale, con le immutabili file di banchi e con il regime militare degli alunni, cui era concesso di  muoversi soltanto a certi dati segni, poneva una grave restrizione alla libertà intellettuale e morale»

Dewey affronta l’idea della libertà dell’esperienza che doveva essere vissuta anche attraverso l’autonomia, quindi la circolazione degli alunni nella classe non è soltanto una condizione fisica ma soprattutto una costruzione mentale. Sosteneva che la libertà dell’esperienza sia dunque la chiave di volta per pensare e fare educazione, ma anche per criticare i punti deboli delle scuole tradizionali.

Invece l’educare ha il compito di accrescere l’ambito dell’esperienza del docente e del discente, del ragazzo e dell’adulto, dell’alunno e dell’insegnante. È proprio in questa particolarità dell’esperienza che si trovano i punti fondamenti di quella rivoluzione pedagogica che Dewey ha generato nella cultura del XX secolo.

[1] Johon Dewey, Experience end Education (1938) trad.it di Ernesto Codignola Esperienza e educazione, Raffaello Cortina, Milano 2021, pag. 39

 

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