Non c’è una via per la pace, la pace è la via
Daisaku Ikeda
Nel tumulto incessante della storia umana, la parola “pace” è spesso soffocata dai clamori della guerra e degli scontri che dominano i titoli e le narrazioni del nostro tempo, schiacciata sotto il peso dei conflitti e delle tensioni geopolitiche. Tuttavia, in mezzo a questo frastuono, un faro emerge illuminando un percorso che troppo spesso viene trascurato: è cruciale esplorare non solo le conseguenze devastanti della guerra, ma anche le proposte concrete per promuovere e preservare la pace. È questa consapevolezza che ci fornisce un punto di partenza verso la comprensione dell’essenza stessa della pace, della sua centralità nella costruzione di un mondo più equo e dell’urgente necessità di porla al centro delle nostre preoccupazioni globali. Attraverso la consapevolezza, la comprensione reciproca e l’impegno concreto, possiamo tracciare un percorso luminoso verso un mondo in cui la pace non sia un ideale lontano, ma una realtà tangibile e duratura, verso un futuro in cui la diplomazia, la giustizia e la cooperazione siano le chiavi per costruire un mondo sostenibile e armonioso. Sia che si tratti di conflitti su scala mondiale o di tensioni quotidiane tra individui, la pace offre un terreno fertile per la crescita e la prosperità condivisa. È fondamentale, se si vuole approfondire questo tema, presentare l’approccio di Daisaku Ikeda, filosofo giapponese, ma anche autore e costruttore di pace, che da decenni si occupa di formulare e divulgare proposte basate sui punti principali del disarmo nucleare, dell’educazione ai diritti umani e della sostenibilità, sempre guidato dai suoi principi che affondano le radici nell’umanesimo buddista.
Ikeda si schiera risolutamente contro le armi nucleari, sostenendo che esse non trovino posto in una legislazione internazionale la quale, basandosi sui diritti umani, si prefissi di proteggere la libertà, la dignità e la vita di ogni individuo. La sua personale esperienza nel Giappone del secondo conflitto mondiale, dilaniato dall’utilizzo delle prime due bombe nucleari sulla popolazione, lo pone nella condizione di capire fino in fondo lo scopo con cui la Dichiarazione universale è nata, ossia per evitare che il resto del mondo patisse ciò che gli hibakusha patirono. L’idea di abolire le armi di distruzione di massa, comprese quelle nucleari, è sempre stata nell’agenda dell’ONU sin dalla prima risoluzione adottata dall’Assemblea generale nel 1946, l’anno successivo alla sua Costituzione. Già dal 1970 comparve il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (NPT), poi potenziato nel 2017 con l’adozione del Trattato per la proibizione delle armi nucleari (TPNW), il quale obiettivo principale è quello di vietare completamente le armi nucleari; impegnando gli Stati parte a non sviluppare, testare, produrre, acquisire o possedere armi nucleari o altri dispositivi nucleari. Il Trattato è stato proposto come un passo fondamentale verso l’obiettivo, tuttavia è importante notare che alcuni dei principali detentori di armi nucleari, come gli Stati Uniti, la Russia, e altre potenze nucleari, non hanno aderito al trattato. Nel preambolo del Trattato per la proibizione delle armi nucleari in America Latina e nei Caraibi, che sancisce la nascita della prima zona denuclearizzata del mondo, si afferma che l’accordo mira non solo alla messa al bando del nucleare, ma anche a realizzare il “consolidamento di una pace permanente basata su eguali diritti per tutti”. In altre parole il Trattato esprime la duplice volontà di realizzare al contempo sia la denuclearizzazione sia la tutela dei diritti umani. La storia ci insegna che l’attuazione dei diritti umani costituisce un deterrente efficace contro conflitti e tensioni internazionali, promuoverli è perciò sicuramente un investimento strategico per la pace globale. Attraverso il rispetto e la salvaguardia dei diritti fondamentali, le nazioni contribuiscono alla costruzione di una comunità internazionale basata sulla fiducia reciproca, la cooperazione e la comprensione comune, ponendo le fondamenta per un avvenire radioso per tutti. Trattati come il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (PIDCP) e il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali (PIDESC), sottolineano l’interconnessione tra diritti umani, sviluppo sostenibile e pace duratura. Il legame tra questi due patti risiede nella comprensione che la realizzazione di uno sviluppo sociale equo e il favorire la partecipazione politica sono cruciali per uno sviluppo sostenibile e ottenere la pace: la privazione di uno di questi aspetti può minacciare l’equilibrio sociale, creare tensioni e contribuire a situazioni di instabilità, mentre la promozione congiunta di questi diritti è vista come un passo verso la costruzione di società più resilienti, inclusive e in grado di affrontare sfide globali in modo pacifico. La comunità internazionale, pertanto, ha il compito di rafforzare la conformità a questi accordi e di adottare misure concrete per garantirne l’attuazione, poiché “gli ideali della pace e dei diritti umani non si possono realizzare in un colpo solo: la protezione legale e istituzionale dei diritti di ognuno si fonda e si concretizza negli sforzi crescenti della società civile, attingendo alle fonti spirituali della legislazione”. Ikeda ha sempre promosso la visione di un mondo in cui ogni individuo gode dei diritti e delle libertà fondamentali, senza discriminazioni di alcun genere, convinto che il rispetto reciproco, l’apertura alle diversità culturali e sociali ed il dialogo siano essenziali per rompere la “bolla di filtraggio” che ci impedisce di vedere realmente al di fuori dei nostri limiti personali, per costruire ponti tra le persone e, di conseguenza, prevenire i conflitti. Cruciale in questa sfida è il ruolo che ricoprono l’educazione e la consapevolezza nella diffusione dei principi fondamentali dei diritti umani: è importante infatti stimolare un processo di empowerment e di acquisizione di consapevolezza che possa restituire dignità a tutte le persone, al fine di edificare una società pluralista e inclusiva a partire da ognuno di noi. Questa va quindi costruita su una cultura dei diritti umani autentica determinata dall’espansione di una solidarietà trasversale, intrinsecamente diversa da quel tipo di tolleranza passiva nella quale non si ha una reale comprensione delle difficoltà vissute dagli altri, e ben lontana da una vera coesistenza, cosa che comporta il rischio che si agisca ma si agisca poco: ad un livello minimo e superficiale.