Giornata della memoria: meditiamo che questo è stato
L’otto dicembre 2019 si è spento, all’età di 91 anni, Piero Terracina, dirigente d’azienda attivamente impegnato nella testimonianza degli orrori dei campi di sterminio di cui è stato vittima. Nel 2016, in occasione dell’anniversario della razzia del 16 ottobre 1943, ad un incontro tenuto presso la “Casa della memoria e della storia”, organizzato dall’UGEI, Piero Terracina aveva accolto i giovani ascoltatori con un monito molto importante:
«La memoria non è il ricordo. Il ricordo si esaurisce con la fine della vita della persona che ricorda il suo vissuto. La memoria è come un filo che va dal passato al presente, ma poi deve raggiungere anche il futuro. Quindi il futuro è condizionato dal passato e soltanto se faremo memoria e la trasmetteremo poi alle nuove generazioni possiamo sperare che il passato non torni.»
Secondo l’analisi congiunta dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane e dello scrittore e storico Marcello Pezzetti, dopo la morte di Piero Terracina, sono rimasti tredici sopravvissuti in Italia, ed ora più che mai è importante ascoltare con attenzione queste parole, per non dimenticare, anche quando avremo esaurito tutti i ricordi. Infatti, si è tenuto pochi giorni fa, un intervento della Senatrice Liliana Segre presso il Teatro degli Arcimboldi di Milano e trasmesso in diretta streaming così che più studenti possibili potessero avere accesso a questa preziosa testimonianza.
Nonostante il costante impegno di coloro che sono rimasti, però, è inevitabile provare preoccupazione per il futuro. La mia generazione, quella che in gergo viene definita “Generazione Z”, è abbastanza fortunata da non aver mai conosciuto la guerra in Europa, e molto probabilmente sarà abbastanza fortunata da non conoscerla mai, come quella precedente e quella successiva. Non sono però sicura che siamo davvero consapevoli di cosa significhi tutto questo e di quali effetti potrà avere in futuro.
Il mondo così come l’abbiamo sempre conosciuto non è una garanzia, non ci è dovuto e non abbiamo fatto nulla di eclatante per meritarcelo, e se un giorno qualcuno decidesse di togliercelo non basterebbe farne una questione di principio per impedire che accada. Noi siamo la conseguenza di una lunga serie di processi storici che ci ha lasciato l’illusione di essere migliori di chi ci ha preceduto, per scoperte scientifiche e sviluppo umano.
Sappiamo tutti che la storia va studiata affinché non si ripeta, perché, come scrive Hannah Arendt ne “La banalità del male”, «è nella natura delle cose che ogni azione umana che abbia fatto una volta la sua comparsa nella storia del mondo possa ripetersi anche quando non appartiene a un lontano passato»; però si continua a insegnare la storia, a scuola, come una faccenda di pochi eletti, potenti, ed egoisti che hanno nelle mani il destino dell’umanità, e ci fanno dimenticare che la storia, anche se solo come numeri, la facciamo tutti.
Le persone che furono deportate — gli ebrei, gli oppositori politici, i prigionieri di guerra sovietici, i massoni, i rom, i sinti, i jenisch, i testimoni di Geova, i pentecostali, gli omosessuali e i portatori di handicap — non riuscirono mai ad organizzare una resistenza efficace perché quando iniziarono i rastrellamenti non c’era consapevolezza. Dopo essere saliti sui treni, non sapevano cosa ci sarebbe stato alla fine del tragitto, non sapevano che un giorno la storia avrebbe avuto gli occhi su di loro e avrebbe giudicato. Dall’altra parte, gli ufficiali tedeschi che ricoprirono il ruolo di carnefici furono similmente pedine inconsapevoli; come hanno ribadito diverse volte coloro che sono sopravvissuti ai lager, i responsabili delle torture che avevano subito non erano pazzi o malati mentali, erano persone normalissime che tornate a casa la sera erano bravi mariti e padri. Emblematica è la frase di Eichmann durante il suo processo a Gerusalemme che dichiarò di aver «solo eseguito gli ordini». La Germania nazista era così immersa nella sua verità da aver perso completamente ogni cognizione del resto e da non riuscire più a rendersi conto che ciò che stava facendo non era neanche lontanamente normale. Tra le persone si era completamente persa ogni traccia di individualità, non erano neanche più numeri, ma pezzi sostituibili in qualsiasi momento. Non c’era scambio di idee, non c’era diversità, non c’era pensiero.
Ma l’inconsapevolezza di ciò che si stava facendo non può essere considerata una giustificazione deresponsabilizzante, ma neanche un aggravante, perché non è nostro compito giudicare. Quello che noi possiamo e dobbiamo fare è cercare di capire come sia stato possibile arrivare a una simile situazione e cercare di evitare che accada nuovamente, perché forse la semplice memoria a lungo andare non sarà più sufficiente.
Già in questo preciso momento storico, in cui abbiamo ancora la fortuna di uno scambio diretto con chi è tornato dai campi di sterminio, tanti giovani sono accecati dall’odio per ciò che è diverso e invocano il ritorno di una dittatura di cui non hanno mai subito le vere conseguenze. Se non riusciremo a far capire a chi ha ancora orecchie per sentire l’importanza della diversità e del confronto, l’umanità affronterà ancora altre dieci, venti, trenta volte l’inferno delle dittature e dei genocidi, e ne pagheremo tutti le conseguenze in maniera disastrosa, perché la scienza continuerà a progredire e si troveranno mezzi sempre più terrificanti ed efficenti.
Non saremo mai davvero “migliori” di chi ci ha preceduto se non riusciremo a capire che il modo più facile per uccidere le nostre menti e comandarle è scegliere nel “diverso” il capro espiatorio di tutti i problemi e far credere alle persone di non avere altra scelta, quando invece la scelta, il potere di cambiare la storia, è proprio nelle nostre mani.
La graduale scomparsa dei testimoni in vita potrebbe significare una sempre minore consapevolezza delle generazioni future. Per questo, l’educazione scolastica dovrà avere ancora di più un ruolo fondamentale nella sensibilizzazione delle menti, nella tutela delle diversità, e nella formazione di persone che costruiranno il futuro essendo ancora in grado di «meditare che questo è stato» (Piero Terracina, 2016).
Manni Michela