“Nessun uomo è un’isola,
completo in se stesso;
ogni uomo è un pezzo
del continente, una parte del tutto.”
John Donne
Questo articolo si pone l’obiettivo di indagare sul delicato rapporto psicologico e di relazione sociale che si stabilisce tra noi e gli altri. Il rapporto che noi abbiamo con noi stessi, e dunque la concezione che ognuno ha del proprio io, ha un ruolo fondamentale nel percorso evolutivo di un individuo e nella formazione della sua rete sociale. Ciò che noi pensiamo della nostra persona influisce sul nostro agire e più in generale sul nostro modo di recepire il mondo, che inevitabilmente influirà sul come gli altri ci percepiscono anche se apparentemente crediamo che non sia così. Il modo di pensare, di agire e di essere anche se non sempre esplicito e manifesto non sembra ma in realtà influisce nel modo in cui gli altri ci percepiscono: come ti mostri determina come gli altri ti rispondono. In altri termini o più semplicemente, se si agisce sempre nella convinzione di non essere abbastanza, non si troverà mai il coraggio di esporsi e di far prevalere la propria figura, si sentirà sempre quel sentimento di inadeguatezza che ci porterà nell’esperienza dei primi disagi sociali, come quella che può essere la problematica dell’integrazione e coesione sociale.
L’integrazione sociale è frutto di molteplici fattori, tra cui la capacità di persuadere l’altro, affermando la propria figura e la propria personalità.
Ciò però è possibile solo se si ha una consapevolezza positiva di sé, riponendo nella nostra personalità pari dignità a quelle degli altri. Spesso infatti, tra le varie cause di disagio sociale vi è proprio l’avere una bassa autostima, percepire l’altro “superiore” a noi, come se avesse maggiore diritto di emergere e finendo così a ricoprire un ruolo di “sottomissione”, che innescherà un inevitabile ciclo di azioni volte nel cercare l’approvazione altrui. Tale concetto è espresso ad esempio dal sociologo Charles Cooley, ideatore del principio del looking-glass self -sé allo specchio-. Egli suggerisce infatti che la percezione che abbiamo di noi stessi si forma in gran parte attraverso il modo in cui crediamo che gli altri ci vedano, dunque la nostra autostima è largamente influenzata dal feedback che riceviamo, in particolare dai gruppi con cui ci identifichiamo.
In tale circolo vizioso dunque, noi non ci mostriamo come siamo ma come vogliamo che gli altri ci vedano, ci si costruisce una falsata concezione del mondo e un’idealizzata percezione degli altri. Non si vede l’altro come figura eguale a noi ma come figura da raggiungere, a cui aggregarsi nella maniera più simile possibile. Il focus delle proprie energie si sposta quindi su ciò che gli altri pensano, perdendo di vista l’unico parere importante: Il nostro. Non dico che il parere esterno sia futile ma nel momento in cui esso diviene il centro del nostro modo di vivere, si comincia a perdere l’essenza stessa della nostra persona. Ad esempio, è positivo il confronto tra punti di vista ma diviene negativo quando ne si comincia a dipendere completamente. La verità è che se in primo luogo l’individuo non riconosce il valore di se stesso, egli non può aspettarsi che lo facciano gli altri o vivere nella speranza che ciò accada: l’approvazione che si ricerca continuamente negli altri si dovrebbe riporla in se stessi. Rimanendo in termini moderni a tale causa contribuisce ad esempio anche il ruolo dei social. Essi infatti enfatizzano modi di essere e di vivere che cominciano a creare aspettative in base alla tipologia di persona che si preveda tu sia, andando ad innalzare ancora di più l’asticella delle aspettative sociali rispetto il ruolo da te ricoperto.
Dell’essere umano infatti uno dei tratti più distintivi, è la constante necessità di sentirsi conforme ad un determinato ruolo, come se quest’ultimo confermasse il proprio valore, necessità che si accentua particolarmente nel periodo adolescenziale. Proprio per questo molti studiosi si sono interrogati e soffermati su quello che è lo sviluppo dell’individuo, come ad esempio lo psicologo Erikson[1]. Egli infatti sviluppò una propria teoria, in cui identificò dei veri e propri stadi dello sviluppo psicosociale dell’individuo. In particolare entrando nello specifico dell’adolescenza o dell’identità diffusa si genera una sorta di «moratoria psicosociale», un momento in cui l’ adolescente si trova naturalmente portato a perdersi nella ricerca del ruolo sociale e del sé: vive cercando di capire non solo chi è ma soprattutto cosa sarà da grande.
È in tale processo infatti che quest’ultimo rimane bloccato in una dispersione della propria identità in una molteplicità di sé ancora non integrato. In altri termini, l’adolescente non è ancora sicuro di chi è e di chi vuole essere, è come se avesse tante versioni di sé stesso non ancora integrate tra loro da rendere un’identità chiara e decisa, egli confuso sperimenta e conosce tante cose diverse e nuove. È in questa fase cruciale infatti che l’adolescente deve formare un carattere abbastanza fortificato per potersi preservare e garantire un inserimento adeguato, senza farsi predominare dai sensi di confusione e inadeguatezza che portano a percezioni distorte di sé e inevitabili disagi sociali.
La necessità di socializzare è quindi intrinseca nel vivere stesso dell’essere umano. Effettivamente fin dall’infanzia siamo immersi in primi gruppi sociali di riferimento, iniziando a conoscerne le dinamiche. Come la scuola, microcosmo della società, o più semplicemente la famiglia: altro nucleo fondamentale del primo processo di socializzazione.
Quest’ultima è infatti il primo luogo d’interazione con il resto mondo; proprio nella famiglia si ricopre un ruolo cruciale nel determinare il modo in cui il bambino concepirà poi il mondo esterno e soprattutto come ne risponderà una volta che diventerà adulto. Ad esempio il cosiddetto senso di inadeguatezza di un individuo è spesso causato da vari fattori ben radicati in profondità, tra cui il rapporto con i genitori, decisivi quindi nella crescita evolutiva del figlio. Per esempio tra le tanti fasi di crescita in cui il loro ruolo è fondamentale, possiamo fare riferimento a quella comunemente chiamata terrible twos, ovvero la fase che si verifica intorno ai due anni in cui il bambino comincia a cercare una propria indipendenza ma al contempo è frustrato dall’incapacità comunicative, ed esprime i proprio bisogni con capricci e rabbia.
Tuttavia crescendo il rapporto con i genitori cambia e cambia radicalmente, ricoprendo un ruolo centrale nello sviluppo emotivo dell’adolescente.
È proprio in questo passaggio che l’individuo deve avere un’adeguata autostima e sicurezza del proprio essere, per non farsi sopraffare dagli altri. Possiamo per esempio fare riferimento all’antropologa Margaret Mead, la quale focalizza l’attenzione sull’identità dell’adolescente e quanto questa si costruisca in modo spontaneo attraverso l’interazione con gli altri (gruppo dei pari) soprattutto quando questo processo avviene senza forzature da parte dell’adulto. La verità è che l’importanza che ognuno attribuisce al giudizio esterno determina ciò che poi ne consegue, difatti esso, se considerato eccessivamente può causare fenomeni come il senso di mortificazione ed eventuali blocchi emotivi con crolli di identità Spesso dimentichiamo quanto il valore del giudizio degli altri dipenda dall’importanza che noi stessi gli attribuiamo. Non possiamo controllare ciò che gli altri pensano o ciò che ci succede, ma possiamo controllare quanto questo gravi su quello che pensiamo sia il nostro valore e sul nostro essere. È quindi fondamentale accettare a priori le proprie vulnerabilità per superare l’autocritica e per cominciare a vivere finalmente in modo autentico la nostra più singolare spontaneità.
[1] Cfr. G.Del Monte, I colori della Psicologia, Giunti, Firenze “2020, pagg.262-269.