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Babele e reciprocità: Un percorso al contrario ?

di Chiel Monzone

Il termine “reciprocità”, le parti che precedono lo dimostrano, può essere declinato come dialogo, relazione, diversità di genere, sessualità, affettività, ecc. Un ulteriore modo che può essere evidenziato è quello della reciprocità connessa con gli aspetti più squisitamente linguistici e la riflessione che si intende qui fare concerne il rapporto che passa tra reciprocità linguistica e Babele.

Abbastanza noto, sicuramente, è il mito di Babele contenuto nel Vecchio Testamento (Libro della Genesi, versi 1-9), che qui sotto viene riportato:

«Ora la  terra aveva una sola  favella, e uno stesso  linguaggio. E partendosi gli uomini dall’oriente, trovarono una  pianura nella terra  di Sennaar,  e ivi abitarono. E  dissero l’uno all’altro: Venite,  facciamo dei mattoni, e cociamoli  col fuoco. E  si valsero di mattoni  in vece di  pietre, e di bitume in  vece di calce: e dissero: Venite, facciamoci  una  città e una torre,  la cui cima  arrivi fino al cielo: e illustriamo il  nostro nome prima  di andar divisi per tutta quanta la terra.

Ma il Signore discese a vedere la città e la  torre, che i figliuoli d’Adamo fabbricavano, e disse: Ecco che sono un sol  popolo, ed  hanno tutti  la stessa lingua: e hanno cominciato a fare questa opera, e non desisteranno da’ lor disegni, finchè li abbiano condotti a termine. Venite adunque, scendiamo, e confondiamo il loro linguaggio, sicchè l’uno non capisca  più il parlare dell’altro. E così  il Signore  li disperse da quel luogo per tutti i paesi, e cessarono di fabbricare la città. E per ciò essa fu chiamata Babel, perché ivi fu confuso il linguaggio di tutta la terra, e di là il Signore li disperse per tutte quante le regioni».La storia di Babele ha più di un significato (peccato di presunzione da parte degli uomini, paradigma della vanità umana, punizione divina, ecc.), ma qui interessa mettere in luce quello linguistico. Sotto tale profilo Babele rappresenta uno spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. Precedentemente la Bibbia o, meglio ancora, i rotoli biblici lo dicono chiaramente, si parlava una sola lingua, quella delle origini, la quale sembra costituire un “fondo comune” a tutti gli idiomi che successivamente si sono parlati: esso sarebbe quel che è stato chiamato Ursprache e metaforicamente indica la “volgata dell’Eden”, come afferma George Steiner in Dopo Babele.

Successivamente ai “fatti di Babele” la Ursprache si sarebbe frantumata negli innumerevoli idiomi parlati nel mondo. L’origine delle lingue è perciò la conseguenza della punizione inflitta da Dio agli uomini per la sfida da essi compiuta nei Suoi confronti (l’hybris: l’uomo, superbo, non esita a porsi contro Dio per affermare se stesso): ad ogni popolo viene assegnata una lingua particolare e mentre prima tutta la terra aveva un unico modo di esprimersi, ora gli uomini parlano lingue diverse e, inoltre, vengono dispersi e finiscono con l’occupare l’intera geografia del pianeta. Dunque è da questo atto divino che prende avvio il gran numero di idiomi esistenti e la necessità di farsi capire tra chi parla in modo diverso. La diversità linguistica – Babele – non favorisce quindi la reciprocità, a seguito della sovrapposizione di suoni (ma non solo) che comunicano pochissimo fra loro. Ne deriverebbe una coppia (“Babele/reciprocità”) che rappresenta una delle relazioni dialettiche (culturali) del XXI secolo e non solo. Tale status quo ha reso necessaria la traduzione interlinguistica affinché chi parla lingue diverse possa capirsi: se si vuole commerciare, viaggiare, negoziare, leggere, ecc., bisogna disporre di “ambasciatori” che siano in grado di comprendere l’idioma degli altri. E in tale necessità risulta evidentemente implicita l’utilità della traduzione. Ma accanto alla necessità di tradurre non si può trascurare quello che Antoine Berman chiama, in L’Épreuve de l’etranger, il “desiderio di tradurre”, che va ben al di là della necessità e dell’utilità insite nella traduzione: è qualcosa di profondo, di nascosto e conduce alla conoscenza, all’incremento del sapere inteso come insieme di cultura, di prospettive e di configurazioni diverse, oltre – si potrebbe aggiungere – alla scoperta della propria lingua e di certe sue risorse lasciate magari incolte. Come afferma Friedrich Hölderlin: «Quanto è proprio deve essere appreso bene tanto quanto ciò che è estraneo»

La traduzione tuttavia presenta classicamente un grosso problema: l’incapacità di equivalenza, considerato che qualsiasi trasposizione da un idioma all’altro pone, spesso, insolubili problemi: pertanto la traduzione perfetta è solo una vagheggiata speranza e quello di una lingua unica è un sogno. Ma ciò non può diventare un alibi e la traduzione resta una pratica rischiosa da effettuarsi comunque; l’alternativa, altrimenti paralizzante, sarebbe la seguente: la diversità delle lingue esprime una radicale eterogeneità e la traduzione, almeno in linea teorica, è impossibile oppure la traduzione – considerata come dato di fatto – si spiega con quel “fondo comune” che rende in qualche modo possibile la trasposizione linguistica. Tale fondo comune sarebbe proprio la Ursprache, un argomento che ha suscitato grande interesse anche da parte, per esempio, di filosofi (Jacques Derrida e il «reame insieme “promesso e proibito in cui le lingue si riconcilieranno e si compiranno”»; Walter Benjamin e “l’affinità originaria”).

Quella del “fondo comune” è chiaramente una teoria “possibilista”, grazie alla quale tradurre è come scendere al di sotto delle differenze esogene ed endogene fra due lingue per andare a ricercare quegli elementi analoghi e, alla radice, comuni. Tuttavia c’è chi si spinge a negare tale possibilità: la tesi della intraducibilità è la conclusione cui sono pervenuti ad es. alcuni etnolinguisti (Benjamin Lee Whorf, Edward Sapir). Opposizioni concettuali a parte, è innegabile che la traduzione si imponga e che avvicini lingue (e culture) diverse, spesso molto distanti (in tutti i sensi) tra loro, garantendo la reciprocità comunicativa. Una osservazione attenta non mancherà, inoltre, di far rilevare come si stia da tempo verificando un fenomeno di “contaminazione” linguistica: è una delle conseguenze della globalizzazione culturale e della uniformità dei comportamenti e dei modelli che si porta dietro, cioè quella perdita della diversità tra culture – un principio così fortemente sentito in ambito comunitario europeo – che sta cambiando le “regole del gioco”. Infatti un mondo come quello attuale, nel quale non esistono pressoché più frontiere, in cui le distanze si sono ridotte notevolmente e tutti siamo a contatto con individui molto diversi, ciascuno con tratti somatici e lingue diversi – “il mondo in casa”, si può benissimo affermare –; un globo nel quale, da un lato, lo sviluppo delle nuove e rapide tecnologie della comunicazione e dell’informazione ci consente di essere informati sulle più lontane parti del pianeta e in cui, dall’altro, i mass media ci propongono produzioni e modelli multietnici e interculturali – non solo statunitensi –, un mondo dalle siffatte caratteristiche ha creato le condizioni per l’avvicinamento e il dialogo fra le varie civiltà, culture e lingue. In particolare per quel che riguarda gli aspetti linguistici, da tempo si assiste a quella “contaminazione” linguistica prima accennata: sempre più frequentemente le lingue si incontrano e si “intersecano” cedendosi a vicenda termini e locuzioni (in termini tecnici si parla di “prestiti”), arricchendosi di nuovi elementi lessicali. Il moto linguistico in questione ricorre per tutte le lingue e nessuna può dirsene del tutto esente; ciò che può variare è semmai l’intensità, cioè la maggiore o minore propensione a far propri elementi linguistici di origine straniera: a fronte di Paesi che tengono alla propria purezza linguistica (ad es. la Francia e la Spagna) ce ne sono altri (ad es. l’Italia) molto ben disposti ad accogliere termini stranieri e ad usarli, mettendo spesso completamente da parte i propri vocaboli che pur non mancano. Una rapida verifica consente di affermare come ad es. in italiano ci sia una eccessiva presenza di anglicismi: l’inglese ha messo in atto una vera e propria colonizzazione linguistico-culturale, di provenienza essenzialmente statunitense, che non riguarda però solo l’italiano, il che sta portando a un monolinguismo anglofono nella comunicazione a livello mondiale con conseguenti rischi di emarginazione delle altre grandi lingue e di estinzione di quelle minori. Oltre agli innumerevoli anglicismi l’italiano presenta anche francesismi, germanismi, ispanismi, “portoghesismi brasiliani”, degli esotismi (ad es. pochi “giapponesismi” e qualche vocabolo polinesiano), alcuni slavismi e arabismi, qualche ebraismo e altro ancora. Ma anche la nostra lingua, a  sua volta, cede alcuni termini, sebbene il rapporto sia impari, ricevendo essa molto più di quel che dà, ma al di là del “chi cede a chi (e cosa)” il fenomeno in questione rappresenta una evoluzione linguistica (Ferdinand de Saussure parlava di parole che fa evolvere la langue). Da questo punto di vista Babele diviene allora un dono: la dispersione linguistica non dev’essere vista perciò solamente come una punizione divina, considerato che presenta aspetti positivi. Così la pensa Steiner, che afferma: «Babele non è stato un disastro ma è stata una straordinaria risorsa per gli uomini. La differenza di lingue è un invito alla comunicazione»

Difatti si è trattato di un dono avendo concesso un segno di libertà: quella del linguaggio, perciò la sorpresa e lo sconcerto che il mito comporta scompaiono quando si pensa alla grande vastità di espressione, di conoscenza, e alla serie di mondi possibili e di geografie (anche della memoria) che i tanti diversi idiomi consentono. Se il linguaggio è il medium con cui si manifesta il sapere e l’esistere – «ogni lingua umana traccia una planimetria diversa del mondo», afferma ancora il citato autore – pertanto la molteplicità dei linguaggi è la libertà dell’essere/esserci. Ciò si dimostra anche nella traduzione, a ben vedere: ragionare sui costrutti, esprimere in un altro idioma un determinato concetto indica come le culture espresse nelle lingue implichino una vastità/diversità di conoscenza e, al contempo, consentano una grande libertà di movimento del pensiero sicuramente molto più dinamico rispetto al passato.

Evoluzione, si diceva poc’anzi, ma verso cosa? Verso un ricompattamento linguistico; è come se dalla frammentazione si stesse procedendo in direzione di una riunificazione, di una nuova Ursprache o, se si vuole, di un nuovo esperanto. Sembrerebbe quindi si possa affermare che si sta realizzando un lento ed inesorabile processo linguistico di senso opposto, quindi suscettibile di ritorno dal passatola presente; una sorta di Babele all’incontrario e la conseguenza di tutto ciò sarebbe che la coppia oppositiva “Babele/reciprocità” di cui prima sta venendo, forse, pian piano dissolvendosi. Se così è, ovvero se il cerchio veramente si sta chiudendo, ci vorrà sicuramente del tempo: è un procedere inevitabilmente lento e non è certo detto che ci si arriverà e, soprattutto, non è il tentativo fatto circa trenta anni fa di costruire a tavolino una lingua comune. Le lingue cosiddette “storico-naturali” sono venute determinandosi per moto naturale, involontario e lento, mentre l’esperanto ha dovuto la sua nascita a un atto voluto che non ha però sortito grandi effetti: infatti l’uso di questa specie di lingua franca ha attecchito limitatamente e riguarda un non grande numero di iniziati. Stavolta, forse, la cosa è destinata al successo e avremo una nuova lingua unica, forse la sola via per sperare in una possibile integrazione linguistica. Ciò lo si potrà dire solo fra moltissimo tempo, ma noi non saremo più qui a verificarlo.

BIBLIOGRAFIADerrida J., Des tours de Babel, in Teorie contemporanee della traduzione, S. Nergaard (a cura di), Bompiani, Milano, 1995 De Saussure F., Corso di linguistica generale, Editori Laterza, Bari, 1967 Ricoeur P., Le paradigme de la traduction, in “Esprit”, 253, 1999 Steiner G., Dopo Babele, Garzanti, Milano, 2004

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