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La reciprocità in videoconferenza – seconda parte

Possiamo tentare di dare ordine al concetto di reciprocità? Partiamo dalla definizione e quindi dal significato: simultanea azione di scambio corrispondente a due entità, persone o gruppi, che interagiscono tra loro in un rapporto biunivoco e vicendevole, in un certo lasso di tempo. Eppure la definizione non basta, sicuramente la reciprocità include qualcosa di più profondo!

L’ordine non è una metodologia, ma soltanto una modalità di osservazione della diversità, senza dimenticare che siamo nello spazio di un caffè. Il latte macchiato, il caffè in vetro, il cappuccino, il caffè in tazza bollente o fredda, oppure il caffè freddo in tazza calda e ancora il caffellatte e infine il caffè macchiato caldo o freddo? Tutti questi modi di declinare una consumazione permettono all’interlocutore di stabilire delle differenze nel rapporto di reciprocità tra gli oggetti e le sue dimensioni empiriche. E allora che cosa sono queste dimensioni? I canali attraverso i quali riusciamo a percepire le differenze. Proprio a seconda delle diverse dimensioni empiriche che ne delimitano il significato del termine reciprocità (organizzazione o struttura di riferimento, nazionalità, tipologia di scambio sociale, livello culturale, tipologia di religione, territorio, origini sociali, etc.), contestualmente ne modificano i principi (fedeltà di coppia nel contesto coniugale, accettazione della flessibilità lavorativa, integrazione sociale, multiculturalismo, appartenenza politica); oltre i riferimenti, i sintagmi, quindi le variabili, gli indicatori, dunque le implicazioni teoriche e persino i paradigmi, che tra loro potrebbero essere o non essere complementari, riusciamo così a dare ordine a ciò che si presenta nel mondo reale. Tutto questo potrebbe sembrare complesso ma in realtà stiamo soltanto dando diverse accezioni di significato al termine reciprocità applicato alla vita quotidiana come forma di rappresentazione delle differenze. Ecco l’importanza del concetto di reciprocità nell’osservazione delle similarità o dissimilarità, nel confronto tra il contesto e il nostro stile di vita. Dobbiamo andare ancora più in profondità per capire quali sono i limiti di questa ideale forma di perfezione. Se poniamo delle domande come: mi sento reciprocamente complementare alla struttura presso la quale lavoro? Sono reciprocamente fedele ai valori della mia compagna o del mio compagno? Riconosco la reciprocità che si stabilisce con i miei amici? Nella flessibilità lavorativa non trovo nessuna forma di amicale reciprocità umana? La tecnologia impone ritmi automatici che escludono ogni forma di reciprocità? Non possiamo realmente rispondere a queste domande in modo dicotomico, vale a dire con un semplice e assoluto sì o no, ma soltanto con quell’approssimativa forma lessicale del generico “dipende dal contesto”, quindi anche dalle persone che formano il contesto.

Gli studi di Thomas Smith e Gregory Stevens partono dal presupposto che il comportamento umano è il frutto di esperienze e modelli acquisiti durante il periodo della formazione e che si arricchiscono continuamente in base al rapporto, costruito, tessuto e condiviso con gli altri. Il passato, le diverse esperienze e le cose che abbiamo acquisite sono parte della nostra identità e in certi casi sono proprio questi elementi a creare l’insieme dei preconcetti che impediscono di stabilire un rapporto di sana reciprocità con gli altri. Ora secondo Smith e Stevens questi modelli comportamentali sono dettati da fattori acquisiti durante la crescita, nel periodo della nostra formazione, e non è dunque così facile riuscire da adulti a modificare modelli di comportamento ormai interiorizzati. Dobbiamo fare delle rinunce. Da questo punto di vista vale la pena riflettere sul nostro senso di appartenenza. Siamo disposti ad andare contro la nostre abitudini? Dal punto di vista ontologico non è così semplice riuscire ad entrare in contatto con l’altro. È necessario andare in profondità, cercando di penetrare nell’idea di conoscenza che abbiamo dell’altro: si tratta di una condizione di apertura verso l’altro. Non è sempre facile capire come e perché si chiude un rapporto di amicizia o di lavoro, affettivo o di qualsiasi altro genere. Nel momento in cui entriamo in contatto con l’altro dobbiamo metterci in discussione cercando di capire se siamo disposti a rinunciare a qualcosa. E questa condizione di rinuncia è sempre necessaria? A questo proposito interviene Roberto Cipriani approfondendo il rapporto tra reciprocità e scambio sociale.Lo scambio è una di quelle dimensioni che ci permette di capire quanto la reciprocità sia un processo di relazione molto diverso rispetto al calcolo razionale delle parità. Non esiste in tal senso una forma di scambio perfetto. È soltanto ideale il processo di “parità dinamica” che presuppone uno scambio di azioni e oggetti tra individui. Non a caso l’esempio di Cipriani, sulle case, mostra quanto sia importante stabilire una forma di scambio, anche se non esiste una corrispondenza valoriale perfetta tra i due beni. In questo caso è più la risposta al bisogno ad essere al centro della questione. In effetti la ponderazione del valore dei beni scambiati ci porterebbe inevitabilmente verso una forma razionale di scambio; sicuramente logica ma del tutto inutile per capire il processo di relazione che ha presupposti completamente diversi. Non è il calcolo dello scambio perfetto a determinare l’equità di relazione, ma la valutazione del bisogno umano, il quale non è dettato da un processo di riconoscimento dell’esatta corrispondenza dei beni scambiati. Il soggetto A non dà un bene al soggetto B perché vuole ricevere in cambio un bene dello stesso valore. Pertanto l’azione passante che determina il processo di scambio diventa il mezzo attraverso il quale si stabilisce una forma di complicità tra soggetti in grado di soddisfare i bisogni dell’uno rispetto all’altro, o viceversa, ma non si tratta solo di uno scambio razionale. Per questo riuscire a capire quali sono le necessità e quindi avere la capacità di entrare e penetrare in profondità nella comprensione dell’altro significa creare quelle condizioni necessarie affinché si riesca a stabilire una forma scambievole di reciprocità: possibilmente duratura nel tempo. È un punto cruciale, in quanto pone l’essere umano di fronte all’esigenze dell’altro, indipendentemente dalla razionalità, o dalla logica economica, o dalla convenienza, proprio perché “il calcolo” esaspera il processo di valutazione razionale dell’entità del bene scambiato alla ricerca della sua esatta corrispondenza. È la sensibilità a rappresentare il valore attraverso il quale riusciamo ad entrare in contatto con l’altro, non certo la razionalità, o la freddezza del calcolo economico. Questo può avere un valore in termini di mercato, ma nei rapporti umani diventa un fattore deviante e forse anche il motivo di rottura delle relazioni. Su questo aspetto Cipriani pone l’esempio dell’accoglienza e di quanto è importante dimostrare un’apertura verso gli altri anche quando l’accoglienza è del tutto unilaterale. Di fatto se trovassimo sempre le porte aperte allora sarebbe facile stabilire rapporti di reciprocità, fluidi, equilibrati e di biunivoco scambio.

La chiusura può in tal senso significare anche quella forma di “comunicazione monca” che però può dare origine al conflitto. Di fronte ad una chiusura possono aprirsi tante strade che ammettono tante ipotesi di rottura. Per distrazione o per noncuranza, magari per stanchezza o per abitudine, per una scelta voluta, insomma sono tanti i motivi che logorano i rapporti tra individui fino alla realizzazione di quella che possiamo chiamare la completa saturazione del rapporto. In questi casi, allora riusciamo a soggiogare il nostro ego fino al punto da osservare in modo equilibrato la tipologia del contatto? Siamo dunque disposti a dimostrare una nuova apertura anche quando troviamo forme di chiusura? Per semplificare, possiamo tradurre il termine chiusura come il silenzio, l’indifferenza, il disaccordo, la non approvazione: come ci comportiamo in questi casi? Dobbiamo sopprimere l’ego? Chiniamo la testa? Dobbiamo rinunciare a qualcosa? Riusciamo ad essere così umili da porgere ripetutamente l’altra guancia? La risposta è ovviamente quella di far leva sulla sensibilità umana: essere aperti verso gli altri anche quando troviamo le porte chiuse. Questo non è il frutto di un comportamento istintivo; sono azioni riflessive, programmate dopo un ragionamento che ha lo scopo di far luce sull’emotività. Vivere in modo sano una relazione significa quindi saper guardare in modo diverso rispetto ai tentativi di ostilità, che l’altro ci dimostra quando tenta di prevaricare ogni forma di reciprocità; questa è una sottile forma di altruismo. Vuol dire accettare l’altro nella sua complessità. Ma siamo disposti a farlo? Sicuramente non è facile, ma qualora dovessimo riuscirci, allora dimostreremmo all’altro che esiste realmente la possibilità di percorrere una strada diversa, rispetto alla brutale forma di risposta alla chiusura. In buona sostanza tutto ciò vuol dire: “essere aperti anche quando ci chiudono le porte in faccia“. Ora dobbiamo tener presente che le relazioni umane non riguardano solo il contesto amicale, o più meramente romantico del legame di coppia, ma anche quello lavorativo. E allora, pensando a quanto sia importante stabilire un legame con gli altri, quando si lavora in gruppo, vale la pena spendere qualche parola in più sul significato che attribuiamo alla parola fiducia, soprattutto se riposta negli altri. Sicuramente nel palcoscenico sociale della quotidianità il mosaico delle relazioni umane si compone giorno per giorno, cucendo e ricucendo rapporti che implicano fiducia, consenso e senso di responsabilità. Ma queste non sono qualità che si possono riconoscere in astratto, dovrebbero emergere in termini di professionalità. Pertanto, il sapere, le abilità e le competenze dovrebbero essere strumenti che permettono all’essere umano di migliorare il suo rapporto di fiducia, anche quando abbiamo degli interessi in gioco. E allora che tipo di reciprocità si stabilisce quando entrano in gioco interessi economici? Su questo aspetto interviene Giuditta Alessandrini, in particolare in merito al concetto di reciprocità in ambito lavorativo. È difficile intrecciare i canali che riguardano la dimensione umana dell’impresa e il mondo produttivo; una strada che almeno in linee generali dovrebbe essere costruita pensando proprio alla reciprocità tra due mondi, i quali potrebbero incontrarsi: quello economico e quello sociale. Tuttavia il bisogno istintivo di relazione verso animali della stessa specie è connaturato nell’essere umano, come la sua propensione verso la socialità, ma tali modelli di comportamento vanno sempre e comunque coltivati, istruiti e di conseguenza razionalizzati, civilizzati nel processo di adattamento tra esseri umani; sono patterns di tipo socio-educativo e come tali non possono essere lasciati al carattere istintivo dell’animale uomo. Su questo punto possiamo fare riferimento all’approccio teorico di economisti come Ernst Fehr e Simon Grächter i quali partono dal presupposto che la difesa degli interessi individuali, come la difesa del territorio o dell’ambiente, quindi della propria sopravvivenza, possono prevaricare sulle relazioni umane a tal punto da rendere difficile la coesistenza tra gli stessi individui. Non dobbiamo tralasciare quella parte di aggressività che l’uomo civilizzato ha canalizzato nel corso dei secoli grazie all’istruzione, all’apprendimento, alla riflessione, quindi ai quei modelli di civiltà che regolano il contatto tra individui appartenenti alla stessa specie. Fehr e Grächter definiscono la reciprocità come una risposta ad azioni amicali non solo verso soggetti capaci di offrire aiuto e propensione all’aiuto, ma tra soggetti che si dimostrano ostili nei nostri confronti: il tentativo di contrastare la cupidigia, l’egoismo, la prevaricazione, l’invidia sono sentimenti umani e come tali possono riemergere in qualsiasi momento, soprattutto quando si ledono i nostri interessi.

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