La reciprocità non implica solo un rapporto di relazione o scambio tra noi e gli altri, basti pensare per esempio all’individuo come insieme di parti e non come individuo unico: spirito, coscienza, mente, azioni ed esperienze. Noi, in tal senso, siamo esseri complessi e come tali dovremmo stabilire un buon rapporto tra il nostro agire e le nostre esperienze, quindi noi e l’identità che nel corso degli anni ha contribuito a formare la parte più intima del nostro vissuto. Come possiamo dunque giungere ad un rapporto equilibrato tra l’immagine che abbiamo di noi e quella che invece cediamo agli altri? Partendo dunque dall’analisi di noi stessi riusciamo ad osservare in modo più equilibrato il rapporto che stabiliamo con gli altri. Anche in questo caso è necessario sempre distinguere il nostro punto di osservazione sul piano interpretativo, come afferma Valeria Biasi, analizzando i diversi aspetti che emergono dal tipo di legame che stabiliamo con le diverse forme di reciprocità. Entriamo così nel rapporto con l’ego, osservandone le diverse sfaccettature, i diversi aspetti e le diverse angolature: dal periodo della formazione all’età adulta noi cambiamo e con noi cambiano le relazioni, che stabiliamo con gli altri. In tutti questi momenti stabiliamo diverse forme di reciprocità, in modo sempre diverso, poi entra in gioco la consapevolezza. Questa discussione sicuramente aiuta ad avere maggiore consapevolezza proprio nell’osservazione del rapporto che stabiliamo con gli altri. In giovane età il processo di scambio è sicuramente spontaneo, ma in età adulta il potere, gli interessi, gli obblighi e le responsabilità agiscono in modo tale da non rendere così spontaneo il rapporto di reciprocità che stabiliamo con gli altri. In età adulta è facile porsi nella condizione di rifiutare il sostegno da parte dell’alter, giustificando l’ego che ha paura del conflitto: rifiuto dello scontro per motivi di etichetta, educazione, perbenismo, eccesso di civiltà. Pensiamo alle “maleparole” che gli adolescenti utilizzano per avere un rapporto diretto con l’altro. Negli adolescenti si tratta di un modo per entrare in contatto senza mezzi termini, per gli adulti la parolaccia rappresenta la dichiarazione del conflitto. E allora si evita il sostegno, anche solo per evitare di ricambiare il senso di ostilità. Si cerca di non entrare nel circolo vizioso del contrasto che genera la contesa del predominio dell’uno nei confronti dell’altro. La sottomissione ovviamente non piace a nessuno e di conseguenza, piuttosto che ricercare un moderato equilibrio in grado di regolare la tensione, si ricerca la chiusura attraverso l’indifferenza: il male peggiore. Proprio perchè l’inter-azione costa fatica, impegno, alternanza di ruoli tra prevaricato e prevaricatore, necessita di uno scambio di parti, oltre all’accettazione momentanea del rifiuto. Quante persone sono in grado di riflettere sul coordinamento della reciprocità degli atteggiamenti? A volte basterebbe riconoscere il ruolo istituzionale della norma sociale capace di regolarne il controllo. La cosa più assurda è che i bambini lo fanno spontaneamente fino a quando non hanno interessi. Se non esiste l’oggetto del contendere è facile prevenire il circolo vizioso delle ostilità: quelle che si creano nella seconda parte di noi stessi. In altre parole potremmo dire che è facile stabilire un legame di reciproco scambio quando non ci sono interessi in gioco, ma nella realtà i rapporti tra gli esseri umani adulti sono mediati da interessi che creano condizioni di rottura rispetto ad un processo spontaneo. E allora le dinamiche relazionali vanno osservate anche in funzione dei singoli interessi e come questi possano influenzare il tipo di relazione. Forse la chiave è quella di ammettere che il controllo sociale si realizza quando diamo un carattere istituzionale alle norme che regolano il rapporto di reciprocità tra gli individui. La reciprocità è dunque l’espressione di una norma che implica la relazione di diritto tipicamente espressa nella determinazione di uno specifico status–ruolo. Pensiamo all’accettazione dell’ego da parte di quella recondita e forse sconosciuta altra parte, l’alter ego, che disconosce e rifiuta il ruolo non perché non gli piace, ma semplicemente perché non accetta la costrizione. Noi abbiamo bisogno di conoscere e sapere che esistono altri mondi migliori rispetto a quello che viviamo tutti i giorni. Di conseguenza il diritto di accettare istituzionalmente il reciproco scambio diventa una forma di coesione realizzata attraverso la conoscenza dell’altro, il quale può offrirci un sostegno verso la solidarietà, oppure può rendere ostile il rapporto. Tutto dipende da come riusciamo a mediare il giusto equilibrio tra la tolleranza, il sostegno, la severità, la costrizione, la generosità e l’egoismo. È facilissimo uscire dalla norma, basta non dare troppa importanza alla relazione o al contatto umano, perdendo di vista l’obiettivo della reciprocità concessa: l’apprendimento, la crescita formativa, ma anche la relazione stessa finalizzata allo scambio di conoscenze. Il piano soci-educativo e quello relazionale inevitabilmente coincidono nelle scienze sociali. Soprattutto in termini di obiettivi e risultati. Ammettiamo che l’interesse sia quello di acquisire, diffondere, fruire e far veicolare le conoscenze e le abilità, quindi le competenze in termini di professionalità. Non si tratta solo di mettere in pratica un processo di apprendimento, ma qualcosa di più complesso: entrare in contatto con la professionalità dell’altro. Se fosse così facile tenere i piani distinti, allora potremmo apprendere senza socievolezza, senza rispetto, senza dignità intellettuale, senza amicizia. E questo è particolarmente difficile, basti pensare a quanto sia istintivo eccedere in severità o evadere dalla norma di reciprocità, escludendo la conformità della norma sociale: il rispetto per l’altro. Altrimenti non riusciremmo a spiegarci come mai ci troviamo di fronte ad un insieme di problematiche che investono la scuola come l’università, l’impresa e la formazione dei più giovani ma anche degli adulti. Federico D’Agostino pone l’attenzione su quanto sia facile compromettere la relazione se diamo troppa importanza agli interessi in gioco, dimenticando il valore umano della relazione di scambio, strumento indispensabile affinché si realizzi il processo di apprendimento. Perché allora si blocca una relazione? È sufficiente saper gestire la propria conoscenza? L’intervento del prof. Federico D’Agostino chiarisce l’importanza del saper diffondere il sapere e quindi le conoscenze, come l’esperienza e la professionalità tra gli individui. Occorre tentare quindi di democratizzare i canali che permettono l’accesso a tutte quelle forme di sapere indispensabili per affrontare il mondo del lavoro. Il problema nasce quando si blocca il processo di scambio tra maestri, insegnanti, professionisti, discenti e decani. È chiaro dunque quanto non sia scontato stabilire un rapporto di reciprocità spontaneo, leale, fluido. Perlomeno non è così immediato come apparentemente potremmo pensare. Si può commettere l’errore di essere troppo concentrati su se stessi, rischiando di dimenticare le difficoltà dell’altro, che vorrebbe apprendere ma rimane escluso, perché non riesce ad entrare in contatto con l’altro. Pensiamo alla linguistica formale, o ai formalismi linguistici. Ragioniamo sul significato della complessità linguistica, che rischia di dimenticare il contesto comunicativo; esasperando il significato grammaticale si finisce per determinare una morfologia linguistica per soli adepti. La lingua diventa allora un modo per stabilire le distanze del parlare utilizzando la terminologia di etichetta. Il tentativo è quello di facilitare la comprensione, non quello di aumentarne le difficoltà linguistiche. Pensiamo alla dialettologia, all’antropologia del linguaggio e ai “pizzini” di Provenzano. Se il linguaggio diventa una forma di esclusione sociale, commettiamo lo stesso errore della setta che non parla per comunicare, ma dialoga per escludere. La parola è un mezzo per esprimere la voglia di libertà che diventa indispensabile per infrangere quelle regole di esclusione sociale: dogmi, sintagmi e paradigmi. In tal senso il parlare difficile non serve, o perlomeno il tentativo dovrebbe essere quello di semplificare il linguaggio affinché si riesca con facilità a trovare un contatto con le altre discipline.
Si tratta sempre di legami con altri saperi intrecciati tra loro e che insieme riescono ad interpretare meglio il presente e a volte anche a prevedere il futuro. È proprio attraverso quest’azione collaborativa di scambi tra discipline, che si genera un sapere nuovo. È l’azione di mutuo e reciproco scambio collaborativo tra gruppi interdisciplinari a giocare un ruolo determinante nell’innovazione della ricerca scientifica. La studio di Toshio Yamagishi e Toko Kiyonari mostra quanto siamo influenzati ad agire in base alle risposte o stimoli che riceviamo dal gruppo con cui ci relazioniamo Anche le scelte che apparentemente sembrano spontanee sono in realtà dettate da precisi codici comunicativi provenienti dall’ambiente, recepiti e poi elaborati dall’individuo. Sono azioni che richiamano esperienze pregresse e sulla base di queste l’individuo stabilisce le proprie assonanze e dissonanze. Pertanto la reciprocità che si stabilisce con il gruppo non è il risultato di una scelta casuale, ma è spesso il prodotto di un ragionamento logico costruito su azioni consapevoli e volontarie. Le domande “come ti trovi con quelle persone? Lavori con piacere?” In realtà nascondono il seguente quesito: “riesci a trovare un livello di concordanza o discordanza tra il tuo modo di sentire e quello degli altri?”
Ognuno porta con sé una “specie di contenitore di generalizzazioni” e preconcetti su cui costruisce il proprio modo di agire. Nel momento in cui si relaziona con gli altri, questo contenitore si incontra o si scontra con l’insieme dei contenitori degli altri. Di conseguenza la loro reciproca intesa dipende proprio da come i diversi generi di contenitori possono stabilire un legame: conflittuale o di reciproca intesa. Pertanto il “genere di contenitore” indica la tipologia di valori, norme, regole, tradizioni, comportamenti, abitudini ed ideologie che partecipano alla costruzione del tipo di legame tra noi e gli altri. Yamagishi e Kiyonari focalizzano l’attenzione sul legame di reciprocità che si stabilisce tra l’individuo e il gruppo attraverso una relazione interdipendente. Si tratta di categorie dissimili ed eterogenee, che si trasformano in azioni simili ed omogenee. Tutto dipende dal tipo di legame. L’assonanza o dissonanza tra i soggetti determina così il tipo di azione e di risposta. Che cosa allora influenza la potenziale compatibilità? La socievolezza, l’umorismo, la serietà, il gioco, la tolleranza, l’altruismo e la generosità sono tutti elementi che vivono dentro il “contenitore” e possono favorire la complicità con l’altro. Ma non è così scontato e soprattutto non è per tutti nello stesso modo. Molto dipende da come ci poniamo nei confronti dell’altro. Alcuni riescono a cogliere gli aspetti migliori dell’altro e altri quelli peggiori, ma altri individui colgono gli aspetti migliori di una persona quando altri avevano colto solo quelli peggiori. In buona sostanza non siamo tutti compatibili con tutti, ma solo con le persone che riescono ad entrare in sintonia con il nostro modo di pensare, di agire e di essere. I gruppi si costruiscono così proprio in funzione di questi presupposti e la loro interazione favorisce la possibilità di creare reciproche interazioni. Il genere o meglio qualunque genere di comportamento, simpatico e antipatico, egoista e altruista, tollerante e intollerante, etc., non è un comportamento che si esprime in termini assoluti. Possono esserci delle predisposizioni in funzione dell’esperienza, ma poi molto dipende dal soggetto con cui entriamo in relazione. Paradossalmente un egoista per eccellenza può tramutarsi in una persona particolarmente generosa, perché incontra qualcuno che riesce a tirargli fuori questo particolare aspetto e viceversa. Potremmo addirittura affermare che grazie alla reciprocità si possono modificare, o perlomeno tentare di correggere atteggiamenti, comportamenti, stili di vita e modi di essere. Per questo è importante riuscire a stabilire un legame con gli altri.
Esistono poi altri elementi come il bluff, la menzogna, la falsità, il doppio gioco, la finzione, etc. Alcuni soggetti riescono a soggiogare certe relazioni perché conoscono i punti di debolezza degli altri. Questa è una particolarità dell’agire dell’essere umano. Le motivazioni possono riguardare particolari meccanismi di difesa o addirittura delle precise strategie; sicuramente è difficile riuscire a cooperare con soggetti che adottano questi modelli di comportamento. È chiaro che l’eccesso di competizione diventa un elemento di disgregazione tra i gruppi, dove si riscontrano maggiori asperità e contrasti, intolleranze e azioni controproducenti. Il mercato, la politica e il mondo del lavoro in genere spesso propongono questi modelli e la non cooperazione diventa quasi una strategia basata su comportamenti individualisti e conflittuali. Si possono modificare certi modelli? Una strada è quella di pensare a modelli antagonisti che però non devono essere presenti solo sul piano socio-educativo. Si possono proporre categorie euristiche capaci di agire su modelli collettivi. Mark Lubell e John Scholz propongono azioni formative mirate direttamente su gruppi che operano nel mondo del lavoro. Si tratta di ricerche capaci di veicolare categorie euristiche di facile attuazione, soprattutto utile a verificare la scarsa produttività. In altre parole è necessario mettere i soggetti di fronte al problema e controllarne i risultati. Solo grazie alla continua e permanente azione formativa si può correggere o perlomeno tentare di correggere un modello di comportamento consolidato nella pratica collettiva. Lubell e Scholz hanno dimostrato sperimentalmente quanto l’azione formativa sia efficace se vengono individuate le variabili attraverso le quali agisce un modello di comportamento consolidato all’interno di un gruppo. In questi casi il problema può rappresentarsi nella scarsa conoscenza del problema stesso. A volte si adottano modelli di competizione individuali (ad esempio, premi di risultato, etc.) senza che si sappia bene quale sia il rischio. Spesso si tratta di meccanismi che agiscono nell’inconscio e la difficoltà sta proprio nella capacità di riconoscere il problema, dimostrare la sua inefficacia, rendere consapevoli gli altri dello scarso rendimento dei risultati. Nel momento in cui si propongono alternative più efficaci, costruite su modelli di cooperazione e sull’azione collettiva, allora le cose possono cambiare. Pensiamo ai dogmi scientifici che impongono la coerenza tra diversi “sintagmi” necessari per definire la stabilità di una teoria: sono validi per sempre? Hanno una loro reciproca coerenza? Nelle scienze umane, quelle che cercano di interpretare il mondo, come la filosofia, la sociologia, l’educazione, le teorie sono valide e tra loro reciprocamente complementari ad un medesimo paradigma, sino a quando non cambia il “modo di vedere il mondo”. Di sicuro negli ultimi anni qualcosa è cambiato. Le tecnologie dell’informazione, come Internet, la posta elettronica, il web, le videoconferenze, hanno accelerato il processo di fruizione dell’informazione spostando l’idea di fissità del sistema, non più come struttura immobile: non è solo l’essere umano che si muove, ma sono i concetti che si muovono dentro e fuori le strutture. La difficoltà è dunque quella di trovare non solo una reciprocità tra gli esseri umani, ma soprattutto tra questi e i lori punti di riferimento: sono in continua metamorfosi. Se scaviamo nel tempo non è difficile osservare come una tradizione, culturale, religiosa o ideologica abbia potuto influenzare non solo un gruppo umano, ma addirittura una popolazione. Attenzione però alle difficoltà terminologiche: affascinano, influenzano il pensiero ma possono anche stabilire divisioni. La parola paradigma non è un termine semplice e attraverso le sofisticazioni linguistiche è facile interrompere un legame di reciprocità. Questo è uno dei motivi che blocca la relazione, ma non è certo l’unico: l’indeterminatezza, il caos, la disorganizzazione, la mancanza di dialogo, l’assenza di un linguaggio comune, l’arroganza e la prevaricazione sono tutti aspetti che possono alterare il processo di scambio tra individui. Se poi estendiamo il concetto di assenza di reciprocità dall’individuo al gruppo e da questo ad una formazione sociale arriviamo all’isolamento ghettizzato, una forma di esclusione sociale: estromissione di una parte della popolazione per fini non certo plausibili. Per questo dobbiamo enfatizzare l’importanza del dialogo per evitare l’emarginazione caratterizzata dalla prevaricazione culturale. È vero, l’essere umano è di per sé un animale socievole, ma non così tanto educato da accogliere chi passivamente non riesce ad entrare nel processo di scambio di attenzioni con il resto del gruppo. Basti pensare agli studenti che ascoltano passivamente in aula oppure a chi non si espone nel dialogo familiare o a chi sceglie di non parlare. Per dialogare non occorre essere degli esperti linguisti. Non è quindi così facile avere la consapevolezza di saper accettare il silenzio dell’altro, mantenendo così attiva, propositiva e integra la nostra identità, ma poi il rischio è di non accedere al processo di scambio culturale. Proviamo a pensare alla reciprocità come ad un processo capace di accettare la libertà del silenzio. Anche questa è una forma di relazione: un linguaggio muto, ma denso dell’espressione libera del non parlare. Albert Mueller Deham afferma che la parola libertà nella relazione accetta spontaneamente l’idea di una possibile separazione, in virtù magari di una successiva e migliore ricongiunzione. Non è una contraddizione, purché sia scelta attraverso la quale riusciamo a ponderare l’idea di voler comunicare qualcosa d’importante: mantenimento dell’individualità nel gruppo, una manifestazione di protesta, il segno di una separazione affinché avvenga una trasformazione delle ideologie, o delle consuetudini radicate in un pensiero dominante ma non adeguate al cambiamento in atto. Persino nella politica internazionale si sceglie di chiudere il dialogo. E allora possiamo pensare alla reciprocità come una forma attiva d’integrazione contrapposta all’integrazione passiva, che per converso potrebbe portare all’esclusione sociale: non vale la pena dunque prolungare il silenzio troppo a lungo, altrimenti si finisce per attivare un processo monco, unilaterale, unidirezionale, incapace di reagire nel tentativo di creare un’identità di gruppo. Un nodo questo su cui verte l’attenzione di Paolo Impara. La reciprocità non è dunque solo una categoria interpretativa così come è stata intesa da Kant, ma un qualcosa che coinvolge l’essere umano nel suo agire sociale. Qualcosa che esiste di cui non possiamo fare a meno. In tal senso pone un dubbio una studentessa dell’università di Venezia, focalizzando l’attenzione su interpretazione e soggettività, quindi anche come si pone l’individuo nello stabilire un contatto umano. Molto dipende dal reciproco scambio e da come questo riesce a modificare la nostra identità attraverso il tentativo di stabilire una sorta di socievolezza, probabilmente come categoria a priori ovvero prima ancora di pensare di stabilire un vero e proprio contatto umano duraturo nel tempo. Sicuramente noi attraverso il contatto con gli altri ci modifichiamo, ci adattiamo, troviamo dei compromessi, degli elementi che ci aiutano a crescere: non cresciamo mai da soli. Il problema è quello di capire come stanno andando le cose nella nostra società. Che cosa è cambiato rispetto al passato? Esiste una relazione tra le diverse generazioni? Nel nostro paese e più in generale nella nostra società siamo in grado di stabilire contanti stabili? Tutto ciò viene sviluppato nell’intervento di Umberto Margiotta. Queste parole hanno chiuso il collegamento e terminato il primo incontro del caffé sociopedagogico in videoconferenza. Non credo che abbiamo bisogno di ulteriori commenti se non della speranza che non sia un evento isolato.